SETTE COSE CHE HO IMPARATO CON MARTINA

E ALTRETTANTE CHE HO RIAFFERMATO


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© Francesca Caregnato, 2015

Sarebbe logico dedicare questo articolo a Martina, ma siccome a lei dedico già molte cose tutti i giorni, ho deciso di rivolgere questa dedica a Eduardo, Salvatore, Lorella, Ana Laura, Corrado, zia Marilena, Stefania, Sabrina, Gabriella,   e a tutte quelle persone-tesoro che sanno starci vicine nei momenti del bisogno.

 

Vi avverto, cari lettori: in questo articolo parleremo di argomenti scomodi. Non di caldo estivo, di zanzare o di politici inetti. Bensì di questioni quotidiane, purtroppo frequenti, che ci toccano direttamente e dalle quali non possiamo scappare. Al massimo provare a mettere la testa sotto la sabbia.

Martina è una delle mie amiche più care. L’ho conosciuta alle superiori e siamo subito diventate molto vicine. Siamo tuttora molto amiche nonostante io abiti in Messico da vent’anni e lei in provincia di Venezia. Ha 42 anni, è sposata da 15, ha una bambina vivace e chiacchierona di dieci anni e mezzo che quest’anno comincia le medie e un maschietto simpatico e appassionato di dinosauri di 6 che inizierà la prima elementare.

Martina ha anche un cancro al pancreas.

Le è stato diagnosticato pochi mesi fa dopo aver avuto dolori inspiegabili per quasi tre mesi; la massa tumorale le stava schiacciando dei nervi. Quella volta, subito dopo la diagnosi, ha detto: “Se non avessi avuto così tanti dolori, non mi avrebbero trovato il tumore. Dunque non tutto il male viene per nuocere”.

Era un 10 maggio quando le mandai un messaggio per augurarle buona festa della mamma. Era da qualche mese che non ci sentivamo, e quella stessa sera le telefonai perché nel suo messaggio di risposta mi aveva scritto che non stava bene. Ancora oggi le sono grata del fatto che mi disse in modo schietto come stavano le cose; non badò ai mesi di silenzio tra noi. In quel momento c’era solo la nostra amicizia a unirci, e farmi sapere della sua situazione fu la porta che mi permise di starle vicina. Da quel 10 maggio a oggi ci siamo sentite praticamente tutti i giorni.

Ricordo che durante quella chiamata Martina pianse per 40 dei 45 minuti che restammo al telefono. Era piena di paura, com’è comprensibile.

Io, invece, non versai una sola lacrima, non mi si ruppe la voce neanche per un momento; durante tutta la telefonata fui la sua colonna, perché aveva bisogno di me e del mio sostegno. Quando misi giù il telefono, la colonna si spezzò in un pianto profondo, disperato, sostenuto solo dall’abbraccio di mio marito. In quel momento mi giunse tutta la paura di quella realtà: la mia amica poteva morire di cancro.

Martina cominciò la chemioterapia lo stesso giorno in cui ricevette la diagnosi. Un po’ troppo in fretta, ma purtroppo era meglio non aspettare, le dissero. Il suo è un cancro che si muove velocemente, e il trattamento deve essere ancora più veloce, e soprattutto efficace.

E’ seguita tuttora in uno dei migliori centri oncologici italiani e lei dice cose meravigliose delle persone che la assistono: medici, infermiere e addetti vari. Questo è importantissimo, che si senta seguita da “persone competenti e molto umane”, come dice lei. Ma la prognosi è molto buia, perché purtroppo lo sono le statistiche che riguardano il suo male. *

Martina quella prima volta non ha fatto neanche due chemio complete. E’ finita in ospedale con diverse complicazioni, tra cui un infarto alla milza e problemi ai reni. Ci è rimasta 27 giorni e ha perso 4 chili. Ma è riuscita a farcela e a luglio è stata dimessa. La nefrostomia che le hanno messo per alleggerire i reni le sta servendo, e questo, combinato a una serie di situazioni positive -prima di tutto l’essere tornata a casa, non avere più febbre né dolori, sentirsi ogni giorno più in forma- ha portato una nuova speranza.

Prima di lasciare l’ospedale, però, uno degli oncologi che la seguono ha riferito a suo marito che la prognosi purtroppo non solo non è migliorata, ma è ancora più buia. C’è infatti metastasi nel suo corpo.

Mia madre mi telefonò per darmi questa notizia un tardo pomeriggio di luglio; piangeva e faceva fatica a parlare per l’angoscia. Lei è come una seconda mamma per Martina, che perse la sua di cancro al seno quando aveva 12 anni.

Quel giorno Martina non sapeva ancora del peggioramento della sua prognosi e non lo avrebbe saputo per diversi giorni. Suo marito ha fatto molta fatica ad accettare questa nuova circostanza, ma era lui la persona che doveva darle la notizia.

Tutto questo, il decorso della malattia e la situazione circostante, mi hanno spinta a volerle essere vicina anche fisicamente. Ovviamente c’erano stati molti momenti da quel giorno di maggio in cui avrei voluto essere lì con lei. Ma fu la telefonata di mia madre e il contesto intorno a questa realtà così pesante da affrontare –la metastasi- che mossero un’intuizione profonda.

Partii meno di una settimana dopo.

Qualcuno le filtrò la notizia del mio arrivo –che voleva essere una sorpresa- ma in ogni caso lei non ci credette fino a quando non mi vide arrivare a casa sua, appena scesa dall’aereo, uno dei tanti caldissimi pomeriggi di luglio di quest’anno.

Giorni dopo le dissi: “Mi sa che non sapevi quanto bene ti volevo”. Mi rispose: “Lo sapevo, ma non mi sarei mai immaginata che potessi venire in Italia solo per me”.

Rimasi lì 15 giorni, di più non potevo. Di queste due settimane, sono rimasta a casa sua 13 giorni. Arrivavo la mattina, in genere grazie a un passaggio di qualcuno, pranzavo con loro e me ne andavo prima di cena, per dargli come famiglia il loro spazio di privacy.

Quelle che seguono sono solo alcune delle tante lezioni che ho imparato, come psicoterapeuta e tanatologa[1]ma soprattutto come amica, durante queste due settimane a stretto contatto con Martina, la sua famiglia e la sua malattia.

Ve le condivido augurandomi possiate farne tesoro se mai doveste affrontare una situazione simile con una persona cara.

[1] Specialista in processi di perdite.

  1. PER POTER ESSERE D’APPOGGIO A UNA PERSONA MALATA IL PRIMO PRESUPPOSTO È AVER ACCETTATO LA SUA MALATTIA.

Certo, tutti abbiamo i nostri tempi ed è assolutamente rispettabile che ci si metta un po’ a realizzare che una persona a cui vogliamo un gran bene sta affrontando una difficoltà così grande che mette a rischio la sua salute e la sua vita. Ma per essere davvero un appoggio, è importante avere una certa dose di convincimento riguardo quanto accettiamo la sua condizione. Questo non significa che non possiamo sentirci tristi o arrabbiati ogni tanto, ci mancherebbe, ma significa che dentro di noi non portiamo tensioni, paure ed energie pesanti che non farebbero bene alla nostra persona cara. Perché possiamo fingere in apparenza, ma in fondo tutti sappiamo che le emozioni si trasmettono soprattutto senza le parole.

  1. MOLTE PERSONE VICINE TI CHIEDERANNO COME STA, MA POCHI RIUSCIRANNO AD ASCOLTARE LE TUE RISPOSTE.

In queste due settimane con lei ho capito che quando una persona vicina a noi è malata, l’interesse che suscita è alto, ma sono pochi quelli a cui possiamo raccontare davvero come vanno le cose. Ed è meglio per tutti capire subito chi è disponibile ad ascoltarci e dunque ad aiutarci a dare contenzione a ciò che sentiamo e che vorremmo dire, e a chi basta un “sta così, adesso sta colà”. E questo non significa che queste persone non ci possano stare vicini in altri modi, però. Vi faccio un esempio concreto.

Un mio zio mi chiedeva di Martina tutte le volte che ci sentivamo, ma appena cominciavo a raccontagli un po’ più a fondo come stava, mi interrompeva per dirmi cose che c’entravamo poco. Ci ho messo due giorni a capire che forse non era il caso di fargli sapere troppo, che magari non era pronto. La prima volta questa cosa mi ha un po’ infastidito. Mi dicevo: “Se non ce la fa ad ascoltarmi, perché mi chiede?”. Ma poi ho capito che era la sua maniera di coinvolgersi; soltanto che non era il modo che più gli era congeniale. Nonostante questo, però, mio zio è riuscito a starmi vicino in una maniera altrettanto importante. Da prima che arrivassi disse a mia nonna che lui era disponibile a darmi passaggi se ne avessi avuto bisogno. Vi posso dire che gliene ho chiesti cinque, e me li ha dati tutti. Questo aiuto è stato per me molto utile e l’ho davvero apprezzato. Ognuno ci sta vicino nel modo che può, e va bene così.

  1. C’È MOLTA PIÙ PAURA A PARLARE DELLE MALATTIE E DELLA MORTE DI QUANTO MI SAREI MAI IMMAGINATA.

Questa semplice riflessione riguarda un po’ il nostro rapporto con le malattie e la morte. Non avete idea di quanta gente abbia sentito dire nelle due settimane che sono stata vicina a Martina: “Eh, non l’ho chiamata perché non ho avuto coraggio” oppure “Ci sono rimasto troppo male quando l’ho saputo, poverina”. Insomma, non importa l’età che abbiamo: la malattia e la morte sono due temi che molte, troppe persone fanno fatica ad affrontare. Anche solo a parlarne. Ecco, in questo caso, se ci risulta difficile sentirci un minimo sereni e forti per incontrare o chiamare una persona cara che è malata, per il motivo che sia e che è sempre rispettabile, direi che è meglio considerare il nostro sentire e prendere una certa distanza.

Ci sono spazi e silenzi che si creano per fare un bene.

E se li dovessimo riempire per forza, probabilmente porterebbero solo tensioni in noi e nelle persone care. Non possiamo essere sempre presenti nel modo in cui idealizziamo. Riconoscere i nostri limiti fa bene a tutti, ed è un atto di grande coraggio.

  1. OGNI EVENTO NELLA VITA HA BISOGNO DEI SUOI TEMPI PER ASSIMILARLO. ANCHE LE MALATTIE, PER CHI È MALATO E PER CHI GLI STA VICINO.

Sarebbe bello che quando succedono questi eventi difficili, tutte le persone relazionate avessimo un orologio per sintonizzarci nei nostri tempi e sentimenti. Purtroppo la realtà è che esistono “destiempos”, come si dice in spagnolo, cioè asincronie che non possiamo accelerare. E questo, per chi sta vicino a una persona malata, rappresenta una fonte di notevole frustrazione.

Nella nostra fantasia abbiamo molte aspettative. Ci aspettiamo magari che, quando una persona riceve una diagnosi, ad esempio di cancro, vive un primo momento di shock, qualche giorno di negazione, poi magari rabbia e tristezza, e infine riesce ad affrontare la sua malattia pienamente. Questa è una teoria che raramente campa nella vita vera.

Nella mia esperienza come psicoterapeuta specializzata in perdite, e in questa particolare esperienza con la mia amica, ho riaffermato che non ci sarà mai un ordine ideale riguardo al modo in cui affrontiamo una malattia. E noi, che siamo la rete di appoggio di questa persona e di questa famiglia, dobbiamo mettercela via.

Sarebbe stato perfetto che due giorni dopo la diagnosi, Martina avesse cominciato a informarsi su tutto quello che doveva e non doveva mangiare per favorire la guarigione. Ma la realtà è che ha cominciato a impegnarsi sul fronte dell’alimentazione quasi tre mesi dopo. Perché doveva arrivarci lei, perché aveva altri pensieri per la testa, altre priorità.

Ed è giusto che sia così. I nostri malati non possono seguire le nostre priorità. Oltre ad essere assurdo, ci sarebbe un ordine diverso per ogni persona che l’appoggia!

Quello che possiamo fare, piuttosto, è avere pazienza, starle vicino e aiutare la nostra persona cara a fare ordine nella sua vita.

Perché quando si affronta una malattia potenzialmente mortale, si fa davvero fatica a pensare con chiarezza.

  1. IN QUESTE SITUAZIONI È IMPORTANTE CHIEDERE E OFFRIRE AIUTO CONCRETO.

La frase “se hai bisogno io sono qui” non applica in questi casi. E quasi in nessuno, in realtà. Se vogliamo davvero aiutare qualsiasi persona in difficoltà, ci sono alcuni passi da fare. Il primo è chiederci in che modo siamo disposti ad aiutare. Perché sicuramente non avremmo piacere di fare qualsiasi cosa, e poi perché probabilmente siamo più bravi in certe faccende piuttosto che in altre. Ad esempio, alcuni avranno la forza e l’atteggiamento giusto per accompagnare alle visite mediche e alle chemioterapie, altri sono più disponibili a dare passaggi o a fare la spesa, altri ancora magari possono offrirsi a tenersi i bambini per qualche ora alla settimana. Poi c’è chi è bravo a dare appoggio morale, chi porterà qualche verdura dal proprio orto e qualcun altro magari arriverà con buonumore e compagnia divertente. In ogni caso, ci vuole onestà con se stessi. E molta prudenza.

Per poter essere d’aiuto io consiglio di dire in modo specifico cosa siamo disposti a fare, giorni e orari compresi. Ad esempio dire: “Se vuoi io ti potrei andare a prendere i bambini a scuola il lunedì, il mercoledì e il venerdì, e possono restare a pranzo da noi e giocare con mio figlio fino alle 4. Lo potrei fare per tutta la settimana prossima / per tutto il prossimo mese”. Oppure “Io potrei venire a casa tua tre mattine alla settimana e aiutarti a preparare da mangiare. Potrei arrivare verso le 10:30 e restare fino alle 12, i giorni che preferisci.”

Come abbiamo già detto, una persona malata a volte non ha testa per organizzarsi e spesso neanche per ricordarsi certe cose. Vale la pena ribadire l’offerta, ma non più di una volta per non correre il rischio di essere invadenti.

E se la nostra offerta non viene accettata, va benissimo così. Possiamo sempre offrire qualcos’altro se proprio vogliamo, sapendo che potrà essere accettato o no, e noi lo rispetteremo.

Vale la pena ricordare alla persona malata che anche lei potrà fare la stessa cosa con noi: potrà chiederci un favore o tanti favori. Non sappiamo se potremo farlo, ma facciamole sapere che possiamo esserle utili, se così lo desidera.

Una cosa importante: non diamo per scontate cose altrettanto importanti come quelle concrete*. Saper stare vicino a qualcuno che magari quel giorno non è in ottima forma, poterlo accompagnare nella sua tristezza, ascoltarlo senza cercare di cambiare il suo stato d’animo, sono grandi regali che possiamo fare a una persona cara che sta affrontando un momento difficile. Significa davvero stare vicini.

 

  1. PIÙ SI PARLA DELL’ELEFANTE BIANCO, E PIÙ QUESTI SI RIMPICCIOLISCE DIVENTANDO UN ANIMALE DOMABILE.

Naturalmente l’elefante bianco è la malattia, il cancro in questo caso. Certo, spesso ci vuole tempo anche per pronunciare la parola in questione, ma più se ne parla, e più diventa piccola. Credetemi. E’ necessario però vincere pregiudizi e soprattutto paure. Esiste quest’idea generalizzata che se si parla del “mostro”, questi apparirà. E invece succede proprio il contrario: il mostro viene esorcizzato.

E non è vero che se si parla della malattia la persona malata si abbatterà. Quest’idea ha più che fare con le nostre proiezioni e paure. Certo, ci sono eccezioni, ma sono rari casi e dipendono soprattutto da due fattori: la struttura di personalità della persona in questione e il momento in cui si trova il malato.

Non parlarne, usare eufemismi e sussurrare le cose, rende la realtà un tabù e lascia spazio all’immaginazione –specialmente dei piccoli- che può essere molto pericolosa. Certo, ci vuole un po’ di tempo, ma prima lo si riesce a fare e prima si allentano inutili tensioni in casa e attorno alla persona malata.

Non ci sono mostri: la realtà si chiama cancro e più se ne parla, serenamente, nella quotidianità, più questo “mostro” diventerà piccolo, alla nostra portata, e dunque affrontabile. Come qualsiasi altra difficoltà nella vita.

Allora parliamone. Anche con i più piccoli di casa.

  1. SIAMO CIRCONDATI DA PERSONE CHE SONO DEI TESORI, MA A VOLTE È LA MALATTIA CHE LE FA FIORIRE.

Le crisi e le difficoltà della vita rappresentano delle meravigliose opportunità per conoscere più a fondo le persone che ci circondano. Purtroppo questo porta anche delle brutte sorprese, è normale. Magari ci aspettiamo determinate risposte, atteggiamenti o dimostrazioni di maturità da parte di certe persone, e invece riceviamo tutt’altro. E ci stiamo male, è comprensibile. Ma una situazione così difficile come una grave malattia farà sbocciare anche persone che non ci immaginavamo nemmeno che potessero volerci così bene, o essere così brave a portarci serenità o aiuto pratico. Teniamocele care.

  1. L’IMPEGNO DI CHI STA VICINO A UNA PERSONA MALATA RICHIEDE MOLTO PIÙ SPAZIO PER DECOMPRIMERE DI QUANTO SI PENSI.

E’ molto utile conoscere tecniche per prevenire e trattare la fatica emotiva, situazione che affrontiamo tutto noi che lavoriamo in campo clinico. E noi esperti conosciamo bene i sintomi del burn-out a cui siamo costantemente esposti. Io per esempio, tra le cose che metto in pratica per proteggermi da questi danni, cerco di rispettare il mio orario di lavoro e non ricevere oltre una certa ora. Inoltre quando incontro famiglie per la prima volta o persone che affrontano temi di perdite, le programmo per l’ultima seduta della giornata, in modo da avere la possibilità di riposare dopo. E altri trucchi che mi aiutano a non sovraccaricarmi emotivamente e mentalmente nel mio lavoro.

Anche durante le due settimane che sono stata con la mia amica ho programmato dei tempi e delle attività per decomprimermi, comprese numerose telefonate condivise con la mia rete di appoggio. Ma purtroppo non sono stati sufficienti.

Come spesso crediamo –narcisisticamente- pensavo di farcela. Non avevo messo in programma che stare con Martina e con la sua famiglia, accompagnarla alle visite e alle chemio, parlare di temi difficili come la morte –tra gli altri- che non aveva ancora affrontato con nessuno, avrebbe richiesto da parte mia un investimento enorme. Perché non c’è solo il legame affettivo che rende tutto più intenso e difficile, nel mio caso c’è stato anche il fatto che tutto quello che abbiamo condiviso è successo in un tempo condensato.

Avrei dovuto prendermi più di due giorni per me; avrei dovuto fare più pause, piangere di più, avere più spazi di quotidianità. Questo, unito al fatto che al mio ritorno ho ricominciato a lavorare subito -il giorno dopo il mio arrivo avevo lo studio pieno-, non mi ha permesso di riposare a sufficienza, di ritrovare il mio equilibrio e di riprendere la mia vita quotidiana con serenità. Ancora oggi, due settimane dopo il mio arrivo, mi sento ancora affaticata.

Insomma, quando stiamo vicini a una persona cara malata, è necessario innanzitutto avere a nostra disposizione una rete di appoggio di persone care che ci ascoltano, ci stanno vicine e ci tengono d’occhio. Dobbiamo stare attenti a come ci sentiamo, e prenderci i nostri tempi per allentare la tensione, la tristezza, la preoccupazione e la stanchezza fisica. In questo senso, tre cose mi permetto di consigliare: dormire un po’ di più; stare al sole e in mezzo alla natura un po’ di più; fare qualche lavoro di casa o comunque non trascurare la nostra quotidianità. Certo, serve anche parlare con le persone a noi care, ma senza che diventi un monologo costante. E non dimentichiamoci dei nostri hobby e delle attività extra quotidiane che ci fanno star bene.

  1. SPESSO È IL MALATO CHE CONSOLA I SUOI CARI.

Frequentemente le persone più vicine a un malato sono quelle che hanno bisogno di essere rassicurati, e spesso sarà lo stesso malato che lo farà. E’ una cosa strana, ma allo stesso tempo comprensibile.

Tutti i giorni cerchiamo di essere forti, di mantenerci interi, ma quando le cose peggiorano cominciamo a dubitare della nostra fiducia. E così dentro di noi aspettiamo che sia il nostro malato che ci dica direttamente se possiamo toccare un certo tema, o che ci faccia sapere se è il momento per versare una lacrima insieme, o muoverci in una determinata direzione. In questo i malati gravi spesso sono molto più bravi e coraggiosi di noi.

  1. PARLARE CON LA VERITÀ RICHIEDE UN IMPEGNO E UNA RESPONSABILITÀ NON DA POCO. MA CHI È MALATO NE HA BISOGNO.

Nei giorni in cui ero da Martina, una volta entrai nella chiesa del suo paese e vidi un cartello con una frase che diceva: “Fate a tutti la carità della verità”. Ne parlai con lei poco dopo. Perché queste parole m’illuminarono: con lei mi ero presa l’impegno di parlare con la verità, di affrontare qualsiasi tema e di usare qualsiasi parola senza tabù e senza altri filtri che non fossero quelli del buon senso, del timing e dell’intuizione.

Le persone malate hanno il bisogno e hanno il diritto di sapere la verità.

Ma non solo: hanno anche la necessità di avere accanto persone con cui condividere le loro paure più profonde, e che non gli dicano: “Ma dai, non dire così, vedrai che andrà tutto bene”. Perché anche se tutti lo vogliono, nessuno sa come andrà, ed è giusto e utile parlarne.

Qualche giorno dopo il mio arrivo, riuscii a convincere suo marito che era giusto informare Martina della sua situazione, e del peggioramento. Lo facemmo insieme. Fu durissimo e ci furono diverse crisi quel pomeriggio. Ma Martina ci ringraziò, e il giorno dopo si mise un vestito più carino e si truccò per la prima volta in settimane. Era pronta per affrontare questo ostacolo.

Una delle cose più meravigliose che riceviamo insieme alla diagnosi di una malattia grave è la possibilità di prepararci e di preparare i nostri cari. Questo è un regalo che non ci è concesso quando la morte arriva all’improvviso. Facciamone tesoro.

  1. IL CANCRO NON È UN NEMICO.

È soltanto un sintomo. Mi trovo in disaccordo con tutte le definizioni che vedono il cancro come un lupo cattivo, una battaglia da vincere, un nemico da combattere. Secondo me danno troppo peso negativo a una malattia che è semplicemente tale, pur nella sua complessità. Nella medicina tradizionale cinese i tumori non rappresentano minimamente quello che invece sono nel mondo occidentale. In oriente –ma non solo- questi sono sintomi di un qualcosa di profondo e antico, in genere di tipo familiare o comunque personale, che non abbiamo elaborato o –come nel caso di tumori attorno ad organi dell’apparato digerente- che non abbiamo assimilato nella nostra vita. Per loro un cancro non è tanto peggiore di un’influenza o di una gastrite.

Certo, non mi aspetto di trovare accordo riguardo quello che è un mio personale punto di vista riguardo molte malattie. Ma mi permetto lo stesso di consigliare di non trasformare una persona nella sua malattia, e di non puntare tutte le luci contro il cancro, perché lo renderebbero troppo protagonista.

Io credo che dinanzi a qualsiasi malattia, senza importare la sua gravità, ciò che deve ricevere luce e attenzione è la guarigione, e tutto ciò che porta in quella direzione.

  1. MOLTE PERSONE AVRANNO OTTIMI CONSIGLI DA DARTI, MA RICORDATI CHE L’ULTIMA PAROLA CE L’HAI SEMPRE TU.

In altre parole: la malattia è tua e te la gestisci tu. Nel modo in cui puoi e vuoi. Come ho detto e come ripeto spesso a Martina, tutto quello che lei ascolta, siano essi consigli, soluzioni o proposte per la cura, anche quando arrivano direttamente dai medici, sono sempre e soltanto opinioni. Alcune migliori di altre, ma pur sempre tali. E’ importante che la persona malata si ricordi che è lei ad avere sempre l’ultima parola, perché si tratta della sua vita, del suo corpo. Noi possiamo solo affiancarla nelle sue decisioni, e iniettarle la fiducia in se stessa di cui ha bisogno per andare avanti.

  1. LE PERSONE MALATE SONO PERSONE PRIMA DI ESSERE MALATE.

E come tali hanno la necessità di sentirsi utili, produttive, di parlare argomenti diversi dalla loro malattia, di sentire che le altre persone continuano con la loro vita e la condividono con loro.

Nell’ultima telefonata con Martina che abbiamo fatto con Facetime, non ho aspettato di sapere di lei, con ansia o con preoccupazione. Non ho neanche cercato di riassumere la mia vita per “non togliere importanza alla sua”. Ho cominciato a raccontarle di me in dettaglio, del mio weekend, della lavatrice che stavo facendo e quanto fossi contenta con la mia nuova Whirpool, di quello che avevo fatto il giorno prima con mio marito, e ho manipolato il telefonino per mostrarle sia il nuovo miele ai fiori d’arancio che avevo comprato il giorno prima, sia il mio cane che ora sta meglio dopo una lunga malattia. Non mi sono sentita colpevole e neppure egoista. E guardandola sul video non vedevo altro che la mia amica e la sua faccia compiaciuta. Quando ho finito la mia narrazione, la prima cosa che mi ha detto è stata: “Meno male che mi racconti un po’ di te, sennò sino sempre io che parlo delle mie cose!”.

Ai malati fa piacere ascoltare di noi, e, come ho già scritto, a loro fa bene distogliere l’attenzione dalla loro malattia.

  1. LE PERSONE MALATE HANNO BISOGNO DI VIVERE COME PROTAGONISTE DELLA LORO VITA, E NON COME SPETTATRICI DELLA MALATTIA.

E’ un po’ la continuazione della riflessione precedente. Questo significa che è importante che si sentano utili e produttive, non invalide o invalidate in tutto quello che fanno a causa della nostra iper protezione. Dunque ricordiamoci che le persone malate possono parlare di cose poco importanti, e anche farle: andare dall’estetista, comprarsi un vestito nuovo o programmare un’uscita al cinema, come quando non erano malate.

Possono anche ascoltare i nostri piccoli problemi e magari darci un consiglio, come quando non erano malate. Possono fare tante piccole cose quotidiane –lavare i piatti, cucinare, andare a fare la spesa-, come quando non erano malate. Possono anche risolvere i loro problemi, come quando non erano malate.

E possono e devono continuare a ridere e a sorridere, come quando non erano malate.

I malati di cancro, in particolare, hanno davvero la necessità di trovare degli spazi per sdrammatizzare e per sorridere. Proprio come quando non erano malate.

Perché prima di essere malate sono persone. Non dimentichiamocelo.

  1. RESPIRA E PRATICA LA GRATITUDINE.

Non credo esistano ricette magiche per la cura contro il cancro. Non credo ci sia una medicina ideale, un alimento miracoloso o un trattamento che farà scomparire il tumore. Ma credo che dedicare qualche minuto al giorno alla gratitudine –la mattina appena svegli e la sera prima di andare a letto- faccia un gran bene. Ho potuto constatare che ci sono molte situazioni che creano crisi, stress e paura nella persona malata di cancro. E’ comprensibile. E non esiste una cura magica neanche per questi momenti.

Ma credo sinceramente nel potere delle respirazioni profonde e nel fatto che, se possiamo farle, significa che siamo ancora vivi, che ci è stato dato un altro giorno per stare con la nostra famiglia, che oggi leggiamo messaggi, riceviamo telefonate e accogliamo la compagnia di persone che ci sono vicine, ci appoggiano e ci vogliono bene.

Allora respira profondamente almeno tre volte di seguito e diverse volte al giorno, e pratica la gratitudine quotidianamente. Non so se questo ti aiuterà a guarire, ma sono certa che ti permetterà di affrontare qualsiasi ostacolo ti si presenti con maggiore serenità.

***

EPILOGO

Oggi, 18 agosto, Martina è viva e sta molto bene con i capelli rasati: le risaltano i suoi occhi azzurri. Ha appena iniziato il secondo ciclo del secondo trattamento di chemioterapia. Solo quando lo concluderà, fra un mese, le faranno le analisi pertinenti per sapere se ha funzionato, e in che stato si trova la malattia.

Nel frattempo, io continuo a mandarle foto e vignette comiche per Whatsapp, e lei mi fa sapere della sua giornata e di qualsiasi novità ci sia.

E quando ci sentiamo per telefono parliamo sempre di noi.

Martina 1

 

 

 

 

 

 

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